Roberta Chichì's profile

Kintsugi - Racconto

I

Eccolo lì, si prepara l’ennesima tazza di caffè della giornata. Non le conto più dall’otto marzo. Aveva già rinunciato a scendere giù, “a casa”, come dice ancora nonostante siano già dieci anni che non abita più lì. Gli avevano anticipato la consegna di quel grosso progetto a cui stava lavorando da mesi, così aveva deciso di restare a Milano. Io mi ero un po’ offesa, aveva promesso di portarmi con sé. Non sono ancora stata dai suoi, viviamo insieme da troppo poco. M’immaginavo già le passeggiate nel bosco sotto casa dei suoi, l’aria dolce di collina e il formaggio di cui parla sempre con tono sognante. Poco male, mi aveva detto, recupereremo.
Solo che poi quelle che dovevano essere due settimane sono diventate quattro. Il grande progetto è rimasto, appunto, un progetto. Gliel’hanno comunicato al telefono e lui è stato molto cortese, ma sentivo qualcosa di diverso nella sua voce. Una volta riagganciato, ha iniziato a lavare i piatti della colazione, sbattendoli malamente sul fondo del lavello e sull’asciugatoio. Uno, poggiato male, è caduto a terra in un frastuono di ceramica rotta. Bestemmiando, si è abbassato per raccogliere i cocci, solo che non si rialzava più. Ho oltrepassato il tavolo per avvicinarmi, preoccupata. L’ho toccato sulla spalla e mi sono accorta che stava piangendo. Mi ha abbracciata e siamo rimasti seduti così per un po’, le sue lacrime pesanti e silenziose, il calore del mio corpo contro il suo.
Non lo sapevo, ma non era che l’inizio. Col passare dei giorni, tante altre telefonate simili alla prima, fatte tutte di vedremo, di domani, di coraggio. Una più micidiale dell’altra, lo vedo da come gli s’incurvano le spalle parola dopo parola. Un po’ fa finta di niente, un po’ mi racconta quello che succede, ma soprattutto fa tante videochiamate con i suoi amici, con i ragazzi dello studio, con i suoi genitori. All’inizio si parlava molto di futuro, di quando poter tornare a fare, progettare, viaggiare, vivere. Si festeggiavano compleanni, lauree e anniversari in chat. Ognuno col suo alcolico preferito, tanti sorrisi e il fondo del bicchiere sempre un po’ amaro. Ora ci sono più che altro consigli su libri e serie tv, su come disinfettare meglio le cose e, stranamente, anche sulle poesie. Non lo facevo proprio tipo da versi e rime baciate, ma chi sono io per giudicarlo. In fondo, il conforto si può trovare in posti ben più strani.

II

Cinquantaquattro ore. Le ho contate, non avevo molto altro da fare. È il tempo che è passato dall’ultima chiamata con i suoi. Sua nonna è positiva, ma questo lo sapeva già. Il problema è quanto in fretta ha avuto bisogno del tubo ficcato in gola per poter respirare. E quanto inutile sia stato. Sembrava un animale in gabbia ferito, continuava a consumare le piastrelle camminando avanti e indietro, emettendo un suono gutturale e primordiale, mai sentito prima. Mi ha fatto rizzare tutti i peli del corpo e non credo lo dimenticherò mai.
Uno pensa che, dato che si tratta di una persona anziana, si faccia un po’ pace in anticipo col fatto che prima o poi non ci sarà più. Forse è anche vero, ma non è affatto scontato. Di sicuro non nel suo caso. C’è una foto sul suo comò di lui in braccio a lei da piccolo. Lui ha già la massa di ricci neri che conosco così bene, è grassottello, sembra abbia circa 4 anni. Guarda in camera facendo quel sorriso esagerato a denti pieni dei bambini quando sentono “Cheese!”. Stringe in una mano un piccolo aereo di stoffa e con l’altra strofina l’orecchio della sua nonna. Lei, una signora di mezza età, che a lui all’epoca sarà sembrata già vecchia. Indossa un bel vestito a fiori e stringe a sé il nipote. Non guarda verso l’obiettivo, è tutta concentrata su di lui. Gli occhi non si vedono benissimo, ma le loro pieghette laterali e il sorriso che le illumina il viso raccontano di un amore prezioso e inestinguibile.
Anche se non mi ha parlato troppo di lei, ho indovinato quanto sia stata importante per lui solo da quella foto.

III

Da quando ha saputo, lascia squillare il telefono a lungo. Non risponde quasi mai, lo fa solo se sono i suoi. Anche con loro comunque non parla molto, il minimo indispensabile per non farli preoccupare. Dorme, dorme per la maggior parte del tempo. Oppure fa finta, rimane a letto al buio sotto le coperte. Sento che è sveglio, ma non piange più.
Io ci provo, eh.
Una volta mi sono accoccolata accanto a lui, cercando di stargli semplicemente accanto in silenzio. Un’altra l’ho chiamato insistentemente per un’ora buona, cercando di farlo alzare dal letto, nella speranza che si mettesse accanto a me sul divano a guardare qualcosa in tv.
Un’altra ancora ho iniziato a far rumore per tutta la casa, sperando che almeno s’incazzasse con me e si muovesse da quell’impasse, maledizione.
Niente ha funzionato. Si alza solo per mangiare insieme a me, ma resta zitto.

IV

Oggi è un giorno diverso, l’ho capito appena sveglia. Lui si è alzato dal letto e l’alone di tristezza che lo circonda da giorni sembra essersi un po’ allentato. Prende la foto dal comò, la guarda per la prima volta dalla telefonata, sfiora il viso di lei col pollice e un’ombra di sorriso gli accarezza la faccia.
Fa colazione con calma, la facciamo insieme. Poi esce sul balconcino striminzito della cucina. C’è il sole, l’aria è dolce di primavera. Si stiracchia, si siede e mi fa cenno di avvicinarmi. Io arrivo e con un balzo mi sistemo in braccio a lui.
“Nina, l’ho sognata. Respirava da sola, stava bene. Mi ha detto che mi vuole bene.”
Mentre la sua mano mi accarezza dalla testa alla coda e le mie vibrisse fremono all’aria tiepida, incomincio a fare le fusa.
Per la prima volta dopo giorni, mi sento finalmente tranquilla.
La ferita è ancora aperta, ci metterà molto a chiudersi.
Ma ce la farà.
Kintsugi - Racconto
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Kintsugi - Racconto

Racconto di scrittura creativa pubblicato nella raccolta collettiva "COPYD19 - Creativi in quarantena"

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