Descrivere in maniera autentica l’identità di un luogo tanto complesso quanto l’Ex Convitto delle Monachelle ad Arco Felice è un lavoro delicato. 
Che non è un luogo come gli altri lo si intuisce immediatamente, appena si esce dal sottopasso buio della stazione della Cumana e ci si ritrova, investiti dalla luce, davanti alla vastità dello spazio e alla varietà di elementi che lo occupano. Forse è il mare ciò che per primo riempie gli occhi. Prima ancora del mare, però, ci sono i muretti sgretolati, le aiuole incolte, con steli d’erba troppo alti e tronchi spezzati, e i vialetti battuti che portano alle strutture dell’ex Asilo Vittorio Emanuele III. Una volta, quelle mura erano adibite all’ospitalità e alle cure per l’infanzia abbandonata. Oggi, sono loro stesse orfane e abbandonate, rianimate unicamente dall’impronta colorata degli . Oltre gli edifici, i vialetti battuti proseguono fino a diventare spiaggia e poi, finalmente, mare. Con i piedi ancora sulla sabbia, basta fare un giro completo su sé stessi per notare recinzioni industriali, elmetti gialli e bracci meccanici di gru in funzione. E poi, ancora più in là, capannoni industriali dismessi e una distesa di rifiuti azzurrissimi, che sembrano prolungare con ironia amara l’azzurro del mare. 
Allo straniamento iniziale si sostituisce la consapevolezza che l’essenza di questo luogo si sviluppa su diversi livelli, che coesistono e confluiscono continuamente l'uno nell'altro, dando origine a un ambiente polimorfo la cui sostanza è la contraddizione. Se ci si pensa bene, l'ossimoro inizia storicamente: da un lato, il Convitto e l’ex Cantiere Navale trasformato in colonia marina per gli orfani, cioè spazi pensati per favorire lo sviluppo e la crescita dei bambini ospitati dall’Asilo, beneficiando anche del contatto con il mare e con la natura; dall’altra parte, invece, un asettico stabilimento industriale con vista sulle onde. 
Adesso che di tutte queste strutture rimangono solo rovine, il paradosso si acuisce e il rapporto tra elemento antropico e natura si fa più complicato da decifrare. L’uno contamina l’altra e viceversa: l’uomo invade la natura e, allo stesso modo, la natura invade inesorabilmente l’opera dell’uomo. Il risultato di tutto questo è un ecosistema anomalo, per nulla rassicurante, ma di cui è affascinante osservare le trasformazioni. O forse, più precisamente, il fascino sta nel fatto che, in un posto simile, il confine tra presenza e assenza è talmente sottile che l’una non si distingue dall’altra. Ed è proprio questo il culmine della contraddizione, la natura profonda delle Monachelle e il motivo per cui luogo abbandonato è una definizione tremendamente riduttiva: qui l’assenza è presenza e la presenza è assenza. Non c’è nessuno e non c’è niente, eppure c’è tutto. C’è la desolazione e ci sono tracce di vita da scoprire. C’è la luce che diventa ombra e l’ombra che diventa di nuovo luce. C’è il caos, ma c’è anche uno strano tipo di ordine, se si è disposti a riconoscerlo.
Assenzapresenza
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